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DANIELE SIRI

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DANIELE SIRI EYESOPEN

DANIELE SIRI E LA FILOSOFIA DEL PRESENTE
Intervista di Barbara Silbe

Daniele Siri è un giovane scrittore di origine ligure. Sanremese, classe 1977, di professione fa il macchinista navale e quando è in mare si dedica anche alla scrittura. Il suo primo romanzo, pubblicato nel 2012 con Antea/Atene, è “Anime nella Pietra”, opera che lui stesso ha contribuito a divulgare presentandola a bordo di una moto-bancarella. Daniele Siri noi di EyesOpen! lo abbiamo voluto sul numero Zero, con il suo bellissimo racconto “Il fotografo di lampioni” che molti dei nostri lettori “cartacei” già conoscono.

Partiamo da lì, ovviamente. In quella prosa lei parla di fotografia come memoria e testimonianza di un’ora che magari domani non è più perché il tempo cambia i luoghi e anche le persone. E’ importante per lei questo aspetto del fotografare?
Sì, non è l’unico aspetto ma è fondamentale. Non solo a livello personale. Proviamo a pensare ai libri di storia, o soltanto agli album di famiglia: che cosa diventerebbero, senza le fotografie? La memoria, il “senso del passato” (inteso come una vitalità ormai sfumata) sopravvive grazie alle parole, agli oggetti, ai racconti, ma forse soltanto la fotografia riesce a conservare e a trasmettere a chiunque la forza di un istante passato con tanta immediatezza, a prescindere dal coinvolgimento di chi osserva la foto. In passato, questo bisogno di salvare “ciò che si vede” toccò alla pittura e al disegno, oggi prevalgono la fotografia e il cinema.

Cosa pensa del fatto che abbiamo scelto di affiancare alle sue parole le immagini di Saul Leiter?
Mi lusinga. Si potesse, bisognerebbe fare a lui la stessa domanda… (scherzo). Le sue foto trasmettono un bisogno di superare l’immagine convenzionale della realtà per immortalarne un’altra, più profonda, in un contesto artificiale come la città. Questa, è un prodotto dell’uomo che perde la vitalità creativa a favore di quella puramente funzionale. Eppure Leiter dimostra che sotto quella “patina” amorfa l’uomo ritrova comunque una forma di armonia con la natura, talmente profonda da risultare quasi misteriosa, soprannaturale. Talvolta i suoi ritratti sono quasi delle apparizioni, sfumate o filtrate, eppure sono piene di vita.

Alcuni dei miei scritti (come il “Fotografo”) cercano di svelare proprio questo aspetto che Leiter affidava all’obiettivo, con un talento e una sensibilità fuori dal comune (la sua). Senza la pretesa di essere ad alcun livello, qualche volta mi dedico a raccontare proprio questo aspetto nascosto della nostra esistenza.

Cosa fotografa Daniele Siri, oltre alle strade di notte? Da cosa è attratto e perché?
Mi attrae la visione inconsueta, come nel ragionamento e forse nello stile di vita. Non per il gusto di essere “bastian contrario”: credo esista realmente una dimensione più nascosta della nostra esistenza, che richieda una prospettiva trasversale per essere colta. È lì che mi piace puntare l’obiettivo. I soggetti sono diversi: la natura, l’architettura e le persone, anche attraverso le attività che pratico. Amo le fortificazioni, i motori, la montagna. Sul mare, ci lavoro: perciò ho fotografato la vita a bordo e la terra vista dalla nave.
Non sono un professionista, ho soltanto studiato i fondamentali per ottimizzare la resa di uno scatto personale.

Da dove nasce la sua doppia sintonia con la scrittura e con la fotografia?
La mia ispirazione arriva quasi sempre per immagini, come fosse un film: con la penna mi limito a descrivere ciò che vedo e le relative emozioni. Con le foto creo un’anteprima, di cui scrivere in un secondo tempo. La foto è un modo per definire un’idea, o un’emozione, e ogni libro comincia dalla copertina: l’immagine è una finestra sulla storia, lo stimolo che spinge ad andare oltre e cominciare a leggere.
Da ragazzo avevo una reflex completamente meccanica e l’attrezzatura per la camera oscura: niente di professionale, ma era bello sviluppare, ingrandire e stampare dettagli, oppure creare fotomontaggi con le mascherine. Se conosci la camera oscura, anche il tuo modo di scattare ne viene influenzato. E l’obiettivo è una prospettiva privilegiata, che estromette tutto il resto: un punto panoramico inconsueto, il buco della serratura dal quale osservare ciò che sta dietro alla visione normale. Oggi uso una “bridge” di buona qualità, versatile e compatta.

Ha più forza una parola o un’immagine? Come e quando sceglie quale dei due linguaggi usare?
La forza di una parola dipende dalla forza del pensiero di chi la legge. Penso che una foto ne risenta meno, perché la vista è un senso più istintivo, meno vincolato alla cultura. Penso che le persone siano più predisposte a lasciarsi coinvolgere da una foto, oggi. Parlo in generale, sui numeri. Leggere costa del tempo e richiede dedizione, desiderio di scoprire, capacità di immaginare. La nostra società sta riducendo queste attitudini, ma non lo dico per farne una questione. Invece le foto sono penalizzate dalla saturazione di scatti della vita quotidiana: si fotografa tutto, in continuazione, per “postare” sui social network o archiviare nel pc immagini qualunque. Milioni di foto, ma lo stesso vale per i libri! Così, si attutisce la capacità di sorprendersi e di emozionarsi.
La scelta dei linguaggi dipende dall’ispirazione del momento e dall’esperienza che vivo. Non sento un confine netto tra la fotografia e la scrittura, a livello di concetto. Però mi sento più capace con la penna che con la macchina fotografica.

Parole a colori e foto in bianco e nero, o viceversa?
Dipende. Penso che la bravura di un fotografo o di uno scrittore dipenda proprio dalla sua capacità di scegliere in quale modo esprimersi, a seconda di ciò che desidera comunicare. Quindi, entrambe le tecniche funzionano e vanno scelte con cura, e la cura dipende dall’esperienza maturata nella comunicazione e nella conoscenza di sé.

In una frase del racconto dice “Se non fotografassi, non saprei dove poggiare il mio presente, che è la sorgente del Tempo”. Parla lo scrittore o il protagonista? E cosa svela davvero questa frase?
Il racconto è una metafora autobiografica. Certo, nel 2000 non immaginavo che sarebbe stato sul numero zero della vostra rivista! Non sapevo nemmeno perché lo stessi scrivendo: il giorno dopo sarei partito per Singapore, era il mio primo imbarco. Lasciavo la donna che amavo, più grande di me, la vita che conoscevo e le prospettive che potevo immaginare sino a quel momento. Stavo per stravolgere il futuro con un “nuovo, inaspettato presente”. Quella sera passeggiavo, e i lampioni erano davvero fiochi.
La “sorgente del tempo” è un modo “letterario” (credo) per dire che quello è l’unico istante che ci sia garantito: il passato è la somma di quelli già vissuti, ineluttabile, mentre il futuro è la conseguenza diretta del presente (progressivo) che lo va generando in ogni istante. È banale da dire, ma è molto difficile viverlo consapevolmente e sfruttarlo per realizzare ciò che siamo. Soprattutto, viverlo considerando che il futuro non sia affatto garantito. Che potremmo non avere tutto il tempo che pensiamo. E dato che la mente cerca sempre di edulcorare, aggiustare, rimuovere, la fotografia aiuta a conservare un’immagine inconfutabile del passato, come causa diretta del presente attuale che bisogna interpretare.


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